L’allenatore: un educatore che sa allenare
Anche nella mia precedente vita professionale all’interno del mondo del calcio allenavo. E lì trovato allenatori di settore giovanile, di scuola calcio e attività di base, troppo orientati al risultato con in mano una squadretta “forte”. Erano poco tolleranti verso il bambino che “rallentava il loro gruppo” e mi trovavo a dire quello che ad un certo punto era diventato un mantra: “sei un allenatore, ma sei innanzi tutto un istruttore, come un insegnante di scuola che con pazienza insegna e accompagna i piccoli alunni, un educatore!”
Nell’approdare in un contesto in cui la disabilità si accompagnava al gioco del calcio, in alcuni casi mi trovavo invece a dover evidenziare quasi l’opposto: “sei un educatore, ma sei su un campo da calcio e devi tener conto del gioco e della motricità, dei suoi principi, di conseguenza sei anche un allenatore!”
Chi allena e in contemporanea dovrebbe educare, è parte attiva di un unico processo che coincide in molti casi con la scuola calcio o settore giovanile, ovvero quelli maggiormente formativi; non troppo differente, per certi versi, dal nostro contesto in cui vi sono atleti con disabilità. Al termine dell’articolo sul talento, facevo notare che il contesto ancora non ha subito del tutto l’influenza di un “certo tipo di business”. Tuttavia potrebbe a breve succedere e forse qualcosa è già cominciato.
Attraverso quale strada formativa?
Una riflessione interessante potrebbe essere fatta sugli approcci da utilizzare, come interpretare alcune necessità. Quale strada è utile intraprendere rispetto agli obiettivi, che nel nostro caso sono spesso tarati anche sulla disabilità specifica?
Addestrare significa far fare qualcosa a qualcuno senza che sappia il perché, nel gioco del calcio potrebbe significare proporre solo esercitazioni analitiche quindi perdere tutto quanto può insegnare la situazione. Ma sappiamo anche che in alcuni casi con funzionalità molto basse si lavora su semplici gesti e autonomie, motricità di base e posturale, associate all’utilizzo del pallone, quindi non distanti dal concetto di addestramento.
Istruire potrebbe avere un significato un po’ meno “opprimente”, ma allo stesso tempo non possiamo pensare di passare tutto il nostro sapere calcistico attraverso le spiegazioni. Un bambino normotopico impara in alcuni casi a far funzionare un gioco complesso attraverso il meccanismo di prova ed errore. Un bambino con una disabilità intellettiva potrebbe imparare attraverso lo stesso principio, ma con meno successo.
Possiamo creare situazioni, mini-partite, partite a tema e intervenire attraverso il gioco, ma sempre avendo una strada di riferimento che prevede step di avvicinamento, nel nostro caso la progressione didattica della scheda allenamento.
Allenare significa migliorare le competenze, ma anche far emergere nuove competenze, nuove abilità tecniche e tattiche. Creare situazioni, giochi in cui serva un determinato gesto per risolvere il problema. Ovviamente, non dobbiamo eccedere per poi attribuire il fallimento alle scarse abilità o ancor peggio alla disabilità.
Chi siamo e chi potremmo essere?
Educatore: Treccani lo definisce come colui che promuove lo sviluppo delle facoltà intellettuali, estetiche, e delle qualità morali di una persona, specialmente di giovane età. E lo fa con l’insegnamento e con l’esempio, colui che trae fuori. Non dobbiamo perdere di vista la passione che i ragazzi hanno nel calcio e quanto un allenatore possa essere un punto di riferimento dell’educazione! Dobbiamo farli crescere nel miglior modo possibile sfruttando tutte le loro potenzialità calcistiche (i loro talenti!), ma non solo.
La passione indubbiamente è importante, specie nelle scuole calcio, nei settori giovanili, e in contesti come il nostro in cui vi è la necessità di saper insegnare il gioco a ragazzi con disabilità intellettive e motorie. Le difficoltà sono differenti e talvolta maggiori, si necessità come spesso abbiamo visto di adattare o creare ex novo una gestualità!
La gestione del gruppo è essenziale, non si può commettere l’errore di sentirsi Ancelotti, Allegri o Mourinho; vi sono età differenti, fasi sensibili molto spesso presentate a noi allenatori durante i nostri percorsi formativi. A volte le scopriamo perché sfociano nei comportamenti degli atleti, talvolta prevedibili, talvolta meno. Nel nostro caso a volte sono influenzati anche dalla disabilità! Non si tratta solo di gestire l’adolescenza con le prime classiche reazioni, o il semplice capriccio di un bambino.
Chi lavora con atleti con basse funzionalità, sa che il concetto di gruppo risulta essere astratto talvolta. I ragazzi faticano a percepire il compagno. Creare file in cui tutti attendono il proprio turno. Fare giochi in cui un atleta percepisce l’altro come compagno o come portiere a cui fare goal. Condividere lo spogliatoio ognuno con il proprio spazio. Tutte queste azioni rappresentano obiettivi di gruppo (più che di squadra in questo caso) di assoluto rilievo!
Competenti! Da un punto di vista tecnico tattico, rispetto ai principi, alle diverse fasi sensibili, ma con una base di conoscenza rispetto alla disabilità che alleniamo. La disabilità deve essere considerata, ma non può e non deve arginare il piacere di far giocare i ragazzi.
Noi forse dovremmo essere insegnati di calcio, piuttosto che allenatori, attraverso un percorso di pratica, tenendo conto delle loro funzionalità, essere così dei facilitatori. Creare situazioni da risolvere, partite da giocare esercitazioni tecniche per migliorare una gestualità carente, e sempre ricordarsi di fare parte di un unico progetto formativo!
Dovremmo formare allenatori bravi che lavorano per i ragazzi e nel nostro caso per la crescita il movimento paralimpico e sperimentale.
Una pedagogia attiva in campo.
In alcuni casi è utile “chiamare la giocata”, dipende dal momento della partita e dalla tipologia di atleta. In alcuni casi potrebbe esserci una dipendenza maggiore, ma il coach deve esplorare la possibilità di rendere autonomo il proprio giocatore, proprio attraverso situazioni, partite, mini-partite, giochi.
Non sempre vi è il patrimonio cognitivo per risolvere quesiti complessi ma, è importante cercare di utilizzare l’apprendimento tramite domande, verificando la comprensione di compiti più o meno complessi. Talvolta i ragazzi non sanno rispondere, non a causa della disabilità, ma per il semplice motivo che non sono abituati a farlo; in questo caso tale processo di apprendimento è poco stimolato.
Obiettivo dall’allenatore sarà quello di creare una “personalità calcistica o sportiva” facendo sentire autonomo chi gioca, a tutti i livelli. Anche per atleti con basse allenabilità, dove 10 metri svolti in autonomia in un percorso equivale ad un possesso palla a due tocchi! Coltiviamo ragazzi che sanno giocare con coraggio l’uno contro uno e passare la palla quando serve. Ricordiamoci che l’errore è uno dei più grandi strumenti per veicolare l’apprendimento. Si impara per esperienza diretta e dobbiamo evitare di proteggere a tutti i costi l’atleta dall’errore per paura di fagli brutte figure (o farne noi!). Perché non saremmo realmente allenatori – educatori.
Andrea Bagnato
Foto di Insuperabili