NON È MAI SOLO IN CAMPO
Non è mai solo in campo. Chi allena lo sa. C’è lo spogliatoio, c’è la riunione… Ma c’è anche molto di più. Perché ogni atleta ha una sua vita prima, durante e dopo.
Quando entriamo in campo per allenare la nostra squadra e i nostri atleti vorremmo che l’allenamento pensato, progettato e preparato andasse esattamente come ce lo siamo immaginato. Tutti gli atleti presenti, puntuali e con la divisa a posto che eseguono tutti gli esercizi bene, nei tempi stabiliti e partecipano a tutte le fasi dell’allenamento.
E invece in campo arriva Stefano, visibilmente triste perché a scuola si è sentito escluso dai compagni. Oppure arriva Chiara molto distratta perché preoccupata che la mamma ha perso il lavoro e la situazione a casa è un po’ tesa. Accanto a lei c’è Silvia, triste perché il papà le ha detto che non gli è piaciuto come ha giocato durante l’ultima partita perché non ha fatto alcun goal. E infine ci sono Alberto e Carlo che sono molto arrabbiati perché nello spogliatoio hanno litigato e ora non si vogliono allenare insieme.
E il nostro allenamento ideale immaginato e desiderato finisce fuori campo. Che cosa è successo? L’extra campo è entrato a gamba tesa nel nostro schema.
Il sistema-atleta
L’idea che quando si entra in campo ci si concentri solo su quello che accade in quel quadrato verde, lasciando fuori tutte le emozioni e tutti i vissuti che riguardano altri contesti è un mito. Soprattutto quando le capacità di identificare, discriminare, gestire e verbalizzare i propri stati emotivi, correlandoli ai vissuti, è in fase di acquisizione o compromessa.
Se a casa sto vivendo un momento molto particolare e intenso da un punto di vista emotivo, avrò maggiori difficoltà a distaccarmene completamente ed essere perfettamente ed esclusivamente focalizzato sul mio lavoro.
La stessa cosa avviene ai nostri atleti. Quando entrano in campo portano con sé, e ne sono influenzati, le esperienze e le relazioni che vivono quotidianamente a cui si aggiunge tutto il peso della propria storia di vita.
È come se l’atleta fosse un sistema planetario i cui oggetti si influenzano a vicenda e generano degli spostamenti, dei cambiamenti di equilibri.
Conoscere quali sono i pianeti che gravitano attorno all’atleta è utile all’allenatore per comprendere quali sono le dinamiche, l’organizzazione, gli impegni, gli equilibri (o i disequilibri) all’interno di questo sistema.
Perché fare rete?
Perché mi serve saper chi incontra settimanalmente il mio atleta?
Credo che le diverse motivazioni si possano riassumere in 3 punti:
- Non è mai solo una relazione uno a uno, l’allenatore e l’atleta. Nel calcio è proprio evidente: la relazione uno a uno è moltiplicata per ogni membri della squadra (atleti e coach) a cui si aggiunge la relazione singolo – gruppo squadra. In campo si crea una nuova rete sociale che prima non esisteva.
- Quando accogliamo qualcuno diventiamo parte della sua rete di riferimento. Questo diventa evidente quando ci troviamo noi allenatori a gestire le “conseguenze” di interventi e comportamenti di altri (come negli esempi citati a inizio articolo) o quando l’atleta porta in altri contesti racconti, azioni o strategie che riguardano il calcio.
- Non posso conoscere tutto di una persona. Il confronto con chi conosce, vive e lavora con l’atleta permette di condividere sguardi, pezzi di storia e di crescita, capacità e difficoltà, strategie e strumenti che altrimenti da soli avremmo scoperto dopo molto tempo.
Sapere quali sono le figure che conoscono e che incontrano con regolarità l’atleta ci permette di predisporre al meglio il lavoro con lui, i feedback da dargli e avere uno sguardo e una conoscenza più completa. Ci serve perché i bisogni della persona non sono suddivisibili in “silos” non comunicanti tra di loro. La logica della rete risponde all’esigenza di un approccio unitario per rispondere in modo efficace ed efficiente ai suoi bisogni.
Quando occuparsi della rete
Una volta individuati questi pianeti del sistema o gli attori della rete, che cosa me ne faccio?
Di solito tendiamo a cercare il confronto con altre voci quando siamo in difficoltà nella gestione di una situazione o di un “comportamento problema”. Cerchiamo il confronto con il nostro collega, con il referente o il supervisore, a volte con l’esterno (famiglia, scuola, lavoro, NPI, altri professionisti), per individuare o creare strategie che “risolvano il problema”.
Questo tipo di attivazione della rete è sicuramente di supporto ma poco funzionale in un’ottica di lungo tempo.
L’ideale sarebbe attivare la rete nei momenti di calma, quando va tutto bene. Sia perché non siamo mossi dall’emergenza sia perché è in questi momenti che possiamo far emergere le aspettative, raccogliere i diversi bisogni, condividere gli obiettivi e creare un sistema più omogeneo di intervento e di cura, portando il nostro sguardo unico e specifico.
Quanto lavoro
Occuparsi della rete di un atleta è sicuramente un lavoro. Diventa un immenso lavoro se lo moltiplichiamo per ogni atleta della nostra società. Quindi che possiamo fare?
Come Insuperabili abbiamo la fortuna di avere gli educator coach che, come educatori, si occupano in maniera specifica di creare e sostenere le reti sociali. E se nessuno del mio team è educatore? Allora dovremo diventare custodi della rete: cioè prendere consapevolezza che la rete sociale è una dimensione che non possiamo eliminare dal nostro lavoro e di cui ci dobbiamo prendere cura perché può diventare una risorsa e un aiuto prezioso nella gestione dei miei allenamenti.
Inoltre, non ci dobbiamo dimenticare che non lavoriamo da soli. Darsi dei ruoli e degli strumenti, suddividere il lavoro e condividere le informazioni sono alcuni modi per alleggerire un po’ il carico e non venire meno a un nostro compito.
Irene Raimondi
Referente Pedagogica Area Ricerca & Sviluppo