Il gioco come strumento di apprendimento
Il vocabolario Treccani definisce l’apprendimento come “atto dell’apprendere, dell’acquistar cognizione […] processo di acquisizione di nuovi modelli di comportamento, o di modificazione di quelli precedenti, per un migliore adattamento dell’individuo all’ambiente.”
Partendo da questa definizione, non ci stupisce quanto lo studio dell’apprendimento abbia affascinato e attratto i professionisti delle scienze umane. In ambito psicologico, ad esempio, basti pensare a nomi quali Pavlov, Skinner, Bandura, Tolman, che già nella prima metà del secolo scorso hanno posto le basi per i posteri che, attraverso diversi approcci e il tracciamento di fili conduttori tra essi, hanno indagato a lungo su come il bambino apprenda e in quali modalità continui ad apprendere per tutto l’arco della propria vita. E soprattutto, in quanti modi un essere umano possa adattarsi all’ambiente attraverso le proprie caratteristiche e il proprio stile di apprendimento, di come quest’ultimo possa differenziarci gli uni dagli altri.
In questo apparentemente grande e complesso sistema di apprendimento, il calcio potrebbe assumere un ruolo?
Il calcio è un gioco
Per provare a dare una risposta o, meglio, per provare ad aprire più finestre partendo da questa domanda, potremmo iniziare da un punto cardine che forse ogni tanto lasciamo chiuso in un cassetto: il calcio, è un GIOCO. E il gioco è lo strumento di apprendimento per eccellenza.
Prendiamo ad esempio uno dei giochi che accomuna maggiormente le nostre differenti culture regionali, ovvero il “gioco del nascondino”. Se riusciamo a proiettarci ai momenti in cui abbiamo vissuto l’esperienza del cercare o del nasconderci in quel contesto, ecco che ci rendiamo conto di quante competenze trasversali al gioco in sé abbiamo acquisito senza neanche rendercene conto. Abbiamo imparato a memorizzare luoghi, nomi e numeri; abbiamo appreso le modalità di comunicazione e di linguaggio adatte a vivere quel momento e non solo; sviluppato le capacità attentive e addirittura le capacità di attenzione selettiva; ci siamo cimentati in processi decisionali, creativi e fantasiosi, e acutizzato le nostre modalità di percepire suoni e immagini, così come di percepire spazi e tempi.
In altre parole, con tutto questo (e molto di più) abbiamo messo in movimento le nostre funzioni cognitive. Ma non solo: ricordiamo come ci siamo sentiti quando venivamo scelti per primi o per ultimi? Riusciamo a percepire ancora la sensazione di quando venivamo trovati o di quando gli altri non avevano più voglia di cercarci, di quando ci sentivamo soli nel dover scovare tutti gli altri, o di quando vincevamo una partita liberando tutti? Ricordiamo l’emozione del sentirsi parte di un gruppo o di viversi come esclusi da esso? Ricordiamo la gioia, la rabbia, la paura, il divertimento, il fastidio, la tristezza, l’euforia?
La relazione è alla base
Queste sono solo alcune delle emozioni provate prima, durante e dopo aver giocato. Infine, e non per ultima, non possiamo dimenticare un’altra area fondante dello sviluppo di ciascuno di noi, ovvero l’area che ci riporta alla relazione.
La mente dell’individuo si sviluppa solo se in relazione. Perciò si costruisce e modifica sulla base di elementi relazionali infiniti e continui a cui ogni persona è soggettivamente sottoposta. Ancora una volta, giocare, anche giocare individualmente, ci pone in continuo confronto con aspetti relazionali: la sfida, la competizione, l’appartenenza, la conoscenza, la condivisione, la collaborazione, il rispetto delle regole, la strategia, e tanto altro ancora.
Wow, quanto è bello giocare.
Spostiamo il focus giusto un po’ più in là, immergiamoci con l’immaginazione in uno dei nostri rettangoli da gioco verdi. Gli attori sono bambini e bambine, persone giovani e adulte, uniche nelle loro caratteristiche. Tante risorse e limiti differenti, tante interpretazioni del proprio mondo interno ed esterno. Forse però, qualcosa in comune ce l’hanno, che potremmo racchiudere nella parola “opportunità”. Siamo certi che tutti i nostri atleti e atlete abbiano avuto le stesse opportunità di gioco dei propri pari? Che abbiano avuto lo stesso numero di occasioni di gioco? E soprattutto le stesse abilità cognitive, emotive e relazionali da poter incrementare, come si fa nel nascondino? Ovviamente no, perché nessuno di noi ha le stesse opportunità di qualcun altro. E certo non solo per l’elemento “disabilità”.
Ma in fondo, se tutti i nostri atleti e atlete, condividono con noi mister anche alcuni aspetti di difficoltà rispetto alle proprie abilità intellettive, rispetto al riconoscimento e alla regolazione delle proprie emozioni e capacità sociali, non partiamo anche noi da un’opportunità di gioco, e in particolare dal gioco del calcio, per affiancarli su tali aspetti? Per far sì che conoscano e riconoscano un po’ meglio queste parti di sé, o addirittura per lavorarci su insieme? Sentiamo in effetti sempre parlare di queste “competenze trasversali” mentali, affettive, relazionali acquisite grazie allo sport. Siamo circondati di concetti psicologici ed educativi come la squadra, il lavoro sulle autonomie, la sconfitta, la vittoria, l’avversario, l’autorità, le regole, la motivazione, la prestazione, l’impegno, l’attesa, gli obiettivi, la passione, le mille sfumature delle emozioni proprie e altrui, ecc.
Tutti concetti da inserire in un bagaglio prezioso, che possa essere aperto in campo e fuori dal campo.
A volte sembrano dei grandi e difficili paroloni.
A volte pensiamo all’apprendimento come qualcosa di associabile solo alla fatica.
Eppure, a volte basterebbe porre l’attenzione su tutto ciò che può offrirti un gioco.
E più di tutto, basterebbe giocare.
Sara Oliva
Coach Psicologo – Referente Sede Torino – Supervisore INSUPERABILI