IL MAGICO RITO DELLA PARTITA
Esiste. Il magico rito della partita, esiste. Esiste perché lo Sport, quello vero, possiede in sé, quasi come se fosse una sua dimensione ontologica, un’enorme potenzialità educativa. E il rito appartiene alla sfera educativa.
Lo sport oltre a sviluppare una serie di competenze (tecniche, relazionali, sociali e trasversali), permette di fare esperienza, di essere immersi, in tutta una serie di riti e di codici che contribuiscono a formare l’identità degli atleti e forniscono delle lenti attraverso cui guardare ciò che accade oltre il campo.
Tutta questa dimensione formativa è presente sempre, ma diventa molto evidente nel momento della partita che si presenta come “un dispositivo materiale, simbolico, corporeo, ludico. Inconscio che permette al ragazzo e alla ragazza di attraversare un setting esperienziale che declini in senso specificatamente educativo i vissuti di ansia, paura, speranza, i bisogni di conflitto, confronto, messa alla prova di sé, ridefinizione del proprio schema corporeo” (P. Barone, R. Mantegazza, La terra di mezzo. Gli elaboratori pedagogici dell’adolescenza, 2002, p. 80)
Quali sono dunque quegli elementi che contribuiscono a generare il magico rito della partita e, più in generale, del calcio?
Lo spazio
Lo spazio della partita è uno spazio sacro: viene delimitato in maniera inequivocabile il dentro dal fuori. Quando si entra in campo, si entra in una realtà differente dalla quotidianità; si entra in uno spazio che ha le proprie norme e i propri codici. Basti pensare che al campo non ci si accede quando si vuole (ci sono dei giorni e degli orari stabiliti) e non ci accedono tutti (ci accede solo chi si allena e/o gioca la partita). Come si entra in campo ha un peso rilevante nella trasmissione dell’identità di una società e nella costruzione di quella dei suoi atleti. Sono gli allenatori che devono presidiare la sacralità dell’ingresso in questo spazio: con quale abbigliamento entriamo in campo? Con quale modalità? Insieme, in fila o in ordine sparso? Di corsa o camminando?
Tutto questo ce lo mostrano i giocatori e le giocatrici che ogni volta che entrano in campo compiono delle strategie scaramantiche: riconoscono che stanno entrando in uno spazio altro.
Il campo è inoltre uno spazio normativo: al suo interno si possono fare delle cose, se ne devono fare delle altre, non se ne possono fare altre ancora. “Imparare le regole del gioco significa imparare che ogni struttura sociale ha delle norma immanenti che devono funzionare per la salvaguardia della struttura” (Idem, p 83). Se trasgredisco le regole rompo il gioco, non ci si diverte più e non ha più senso stare insieme a giocare; tanto che la punizione massima alla trasgressione è l’essere cacciati dal gioco. Con tutte le conseguenze e le emozioni che vengono provate dall’atleta, dalla squadra e dagli altri (avversari, genitori, spettatori…).
Il tempo
Anche il tempo della partita ha una dimensione di sacralità: anche se rimane dentro lo scorrere del tempo ordinario, ha delle caratteristiche che lo distaccano.
La partita ha una propria temporalità che la differenzia da quella quotidiana: i tempi hanno nomi diversi e il tempo viene misurato diversamente. Il tempo della partita viene contato in minuti ma non sono le ore della quotidianità (chiediamo a che minuto siamo e non che ore sono) e non ha mai una durata certa e definita (i tempi di recupero o i supplementari cambiano la durata complessiva). Se è vero che si gioca fino alla fine, è altrettanto vero che quanti minuti extra 90’ vengono chiesti incide moltissimo sia livello psicologico sia di carico fisico.
La temporalità sacra del tempo partita diventa evidente se ci concentriamo sui riti di apertura e chiusura che ogni allenatore dovrebbe presidiare e curare.
La partita inizia molto prima del fischio d’inizio. Inizia giorni, settimane o in alcuni casi anche mesi prima quando si prepara la partita. E ci sono tanti altri pre-inizi: la convocazione degli atleti, il ritrovo, lo spogliatoio, il riscaldamento, la presentazione delle squadre agli arbitri e al pubblico.
E poi c’è il triplice fischio che segna la fine netta e definitiva della partita. Il risultato immutabile segnato sul tabellone e non c’è più nulla da fare. Ma la partita è bella proprio perché finisce, perché è l’unico modo per iniziarne un’altra. E allora diventa fondamentale curare il tempo del fine partita, con tutto ciò che porta con sé: le gioie della vittoria, l’amarezza della sconfitta e l’ambivalenza del pareggio.
I corpi
Quando si entra in una dimensione spaziotemporale diversa come quella della partita (e dell’allenamento) non lo si fa con gli abiti di tutti i giorni.
Cambiarsi è il rito che segna l’essere in uno spazio-tempo altro, è il momento in cui il corpo si agghinda per la partita ed è anche un rito che unisce un gruppo di persone, che li fa diventare un vero gruppo.
La divisa è parte integrante nell’identità di un gruppo, sia in termini di costruzione del gruppo sia di riconoscimento interno ed esterno (gli avversari indossano una maglia diversa dalla mia). Il numero sulla schiena della maglia gara è invece elemento di costruzione dell’identità del singolo atleta, è l’elemento distintivo e unico che rende il singolo riconoscibile, come se diventasse parte integrante del suo nome.
Non si indossa una maglia qualunque; si indossa quella maglia che racchiude e rappresenta chi sono. È solo partendo dal riconoscimento di questa dimensione identitaria che la maglia porta con sé che possiamo aggiungere tutti rituali che ci sono attorno: la consegna e la riconsegna, la cura, il coinvolgimento dei genitori, la scelta del numero…
Quando manca la partita
Ma che cosa ce ne facciamo di tutto questo se i nostri atleti non giocano, non sperimentano la partita? Dove va a finire il magico rito della partita?
Tutti gli elementi descritti sono costitutivi nello Sport, nella partita sono maggiormente accentuati ma sono presenti (o dovrebbero esserlo) in ogni allenamento. Sono gli allenatori che dovrebbero curare e custodire queste dimensioni e queste ritualità perché contribuiscono alla crescita e alla formazione dell’identità di ogni singolo atleta.
Anche se non gioco la partita i riti dell’allenamento formano ed educano l’atleta a diversi aspetti:
- non tutti gli spazi sono uguali e che ogni spazio ha le sue regole,
- il tempo non è neutro ma è percepito e ha un carico emotivo specifico e personale,
- indossare e prendersi cura di una divisa vuol dire prendersi cura di me e del gruppo cui appartengo.
E questo è necessario in campo, ma è fondamentale quotidianamente extracampo. Il magico rito della partita è parte della vita.
Irene Raimondi – Referente Area R&D – Pedagogia