Il talento sportivo: cos’è e chi lo possiede? (E come lo gestisce un allenatore?)
Talento sportivo. C’è o non c’è? Ce la siamo fatta tantissime volte questa domanda, ogni volta che noi allenatori giriamo per i campi, siamo in panchina, in partita, in allenamento, davanti alla televisione.
Non sempre abbiamo ragionato sulla corretta definizione. Quindi partendo da questa, parlando di sport nel nostro caso possiamo dire che il talento è una dote naturalmente posseduta, più profonda di una attitudine o di una predisposizione, superiore ed innata
Spesso è nascosto verso una certa attività, si nota solo da qualche dettaglio incompleto, che comunque al momento dell’osservazione probabilmente non è neanche in atto.
Il talento: una combinazione di più fattori
Tutti vorrebbero scovare e poi allenare talenti, ma come si fa a riconoscere il talento ad esempio in età giovanile? Inoltre, quanto può essere presente e quanto è giusto preoccuparsene se oltre al fattore precocità abbiamo a che fare anche con una disabilità che caratterizza l’atleta?
Da allenatore e figura sportiva a contatto con colleghi e figure professionali in ambito psicologico ed educativo, è sempre interessante cogliere collegamenti tra questi mondi che di fatto sono inevitabilmente legati. La multilateralità sportiva, ad esempio richiama dal punto di vista psicologico concetti in qualche modo rappresentati dal modello multifattoriale di Orosz e Birò (2009) i quali parlano del talento come una caratteristica non stabile. Oggi un atleta sembra un talento, ma domani potrebbe non esserlo più… o almeno sembrare di non esserlo più, perché potrebbe produrre una performance diversa da quella di oggi.
I Fattori personali dell’atleta possono condizionare, in particolare fattori fisici, cognitivi e affettivi. I Fattori interpersonali, che comprendono i genitori, la famiglia, i parenti, gli amici, e nel nostro contesto gli educatori, altre figure che lavorano con l’atleta e l’allenatore stesso…
I Fattori transpersonali, ovvero le convinzioni personali rispetto a ciò che accade e il modo in cui vengono singolarmente affrontate.
Da istruttori e allenatori, senza poterci addentrare professionalmente in talune argomentazioni, possiamo però convincerci ulteriormente di come il talento non possa essere una caratteristica stabile.
Se il Barcellona non avesse scommesso su un “piccoletto” di nome Lionel Messi a cui avevano diagnosticato una deficienza nella produzione di somatotropina (ormone della crescita), se Alex Ferguson non avesse semplicemente detto a Cristiano Ronaldo “tu prendi il 7 di Best, Cantona e Beckham, non in 28”, se LeBron James nato smarrito e senza figure di riferimento non avesse scoperto la pallacanestro, se Daniele Cassioli cieco dalla nascita (vincitore di 100 titoli paraolimpici nello sci nautico) non avesse avuto una famiglia che come racconta “ha avuto il merito di mettere il bambino davanti al cieco”, così come tanti altri artisti dello sport, se nessuno si fosse accorto di quel loro talento e non lo avesse quindi supportato? Lo avrebbero probabilmente disperso nel nulla, avrebbero fatto tutt’altro, o magari non avrebbero raggiunto i livelli grazie ai quali oggi il mondo li celebra.
Un dono divino o anche altro?
Il talento è quindi una dote naturale, un dono, qualcosa di più avanzato rispetto ad una predisposizione o attitudine. Tuttavia, una semplice attitudine, il percepire di “essere portati” verso qualcosa è un punto di partenza per l’esprimere un vero talento che magari silenziosamente c’è, ma che diventa tale quando siamo in grado di farlo uscire strutturato e completo.
Nel calcio come nello sport, che sia per atleti “normotipici” o per atleti con disabilità, il talento deve potersi trasformare in un gesto o più banalmente in un atto motorio.
Secondo Smith e Lee (2014) l’apprendimento motorio viene definito come un insieme di processi associati con l’esercizio o l’esperienza che determinano un cambiamento relativamente permanente nella prestazione o nelle potenzialità di comportamento.
Joch (1992) descrive il talento come colui che, sulla base della disponibilità alla prestazione e delle possibilità che gli sono state offerte dall’ambiente nel quale vive, ottiene risultati superiori alla media della sua età, ma suscettibili di sviluppo.
I risultati derivano da un processo pedagogicamente guidato in maniera attiva e controllato attraverso l’allenamento, che orienta il nostro ragazzo verso la prestazione sportiva che dovrà essere raggiunta successivamente, si spera, a livelli elevati.
La prestazione, che ricerchiamo e spesso chiediamo ai nostri atleti, viene definita da Claudio Mantovani, docente alla scuola dello sport del CONI, come un comportamento osservabile in un dato momento, temporaneo e influenzabile da fattori come la fatica e la motivazione. Ciò significa che la prestazione potrebbe non essere stabile perché è identificata in un preciso momento, ma pochi minuti dopo potrebbe essere influenzata da qualcos’altro che subentra. Ad esempio, la temuta fatica fisica e ancor di più mentale, e forse (ancor meno gestibile per una determinata tipologia di atleti) dovuta ad un calo di motivazione, associata a crisi o comportamenti disfunzionali alla gara.
Importante sarà da parte dell’allenatore ricercare l’apprendimento all’interno della prestazione, attraverso il miglioramento del gesto tecnico o dell’esecuzione di un atto motorio, l’adattabilità al contesto, la costanza e la persistenza di quella condizione, perché significherà che vi sono dei cambiamenti in atto, anche se non ancora del tutto stabili.
E ‘dunque necessario abbandonare l’immagine del talento come una strada rettilinea e magari anche in discesa! Probabilmente potrebbe invece essere immaginato come una strada con curve, salite e discese, interruzioni, segnaletiche confuse o mancanti, ma magari ad un certo punto con anche qualche bel rettilineo! Sicuramente una condizione che chi lavora con persone, nel nostro caso atleti, con disabilità ben conosce.
Ci sono ambienti in cui il talento si può esprimere più di altri
Sono ambienti in cui si genera fiducia, fra l’atleta e il coach, fra la famiglia e il contesto che le accoglie. Ambienti in cui non vi è giudizio sulla persona, ma vi sono feedback costruttivi, indicazioni semplici e precise, consigli. Non è importante se tutti riusciranno a fare le stesse cose in egual modo e misura, ma la competenza dell’allenatore e dei suoi collaboratori deve permettere all’atleta di dare il massimo avvicinandosi al suo personalissimo ipotetico cento per cento.
Il talento, deve essere quindi notato da qualcuno che possa aiutare l’atleta a svilupparlo, deve essere spinto dall’ambiente circostante, dalla motivazione di chi già la possiede, o dalla guida sapiente di chi sa far nascere la motivazione. Lo sviluppo di un talento non è sempre costante e può talvolta interrompersi, a causa di un’esperienza negativa, del giudizio negativo di qualcuno, del non essere riconosciuti dagli altri. Nel calcio come in qualsiasi sport, nella scuola o qualsiasi ambito, giovanile o di alto livello, in ogni campo e palestra, ci sono tanti talenti che nessuno riconosce e che, purtroppo, nessuno conoscerà. Se chi giudica non ha talento o manca di sensibilità e competenza, tutto si complicherà.
Se invece siamo in grado di creare un ambiente favorevole il talento può sbocciare, crescere, durare e creare opere straordinarie, anche in contesti per atleti con disabilità, di qualsiasi tipologia, in cui non è presente, almeno per il momento, il grande business dove ricercatori, coach e addetti ai lavori, cercano in continuazione di trovare metodi efficienti per identificare i migliori talenti del futuro.
Andrea Bagnato
Foto di Insuperabili / Freepick