La diagnosi: utilità e sfaccettature nello sport con persone disabili
Che cosa significa ricevere una diagnosi?
Avere un giudizio clinico su una determinata condizione che caratterizza il soggetto e che in quel momento non lo fa stare bene.
Al giorno d’oggi, ricevere una diagnosi di qualunque tipo ha una ricaduta importante sulla persona stessa e sul nucleo che lo circonda, soprattutto perché è ancora spesso considerata come una condanna, un’etichetta dalla quale è impossibile liberarsi e di cui è meglio non parlare, comportandosi come se non esistesse. Ciò è dovuto ai numerosi stereotipi e pregiudizi che purtroppo ancora oggi aleggiano intorno alla parola disabilità, mondo ancora troppo sconosciuto (Perrotta, 2009a). L’ottica prevalente è di tipo medico e/o socio-assistenziale, fondata su aspetti legati alla salute e alle politiche di welfare; questa lente però non è sufficiente da sola a farci comprendere meglio questa realtà (Pretto, 2016). Anche perché, al contrario di quanto si tende a credere, ricevere una diagnosi, informare chi sta intorno e rivolgersi ad esperti del settore, significa darsi l’opportunità di avere maggiori strumenti a disposizione per poter lavorare su quella condizione e quindi per migliorarla.
Una cosa facile, difficile o impossibile?
Non è certamente facile tutto il processo che una famiglia e/o una persona devono compiere per arrivarci e proprio per questo dovrebbe esserci maggiore attenzione anche ad aspetti più psicologici e non solo puramente medici. Ricevere una diagnosi non è esattamente come andare a ritirare una ricetta per un farmaco; è uno dei passaggi di un percorso lungo e tortuoso che una famiglia deve affrontare e in cui spesso si trova da sola e senza supporti.
La diagnosi, infatti, rappresenta la restituzione di una serie di osservazioni, test, colloqui che il professionista somministra per confermare o meno le difficoltà portate nella richiesta iniziale. Già arrivare davanti al professionista e chiedere aiuto è un enorme passo che la famiglia compie e che dimostra un primo approccio alla consapevolezza che c’è qualcosa che non va. Non è scontato che dopo la restituzione questa rimanga o si esterni. Spesso purtroppo le famiglie che ricevono una diagnosi tendono a negarla, minimizzarla, rifiutarla, fino a nasconderla e addirittura nascondersi (Maino, 2010).
La diagnosi al contrario dovrebbe rappresentare un punto di partenza per spronare la famiglia ed il soggetto stesso a poter fare tutto il possibile per consolidare i punti di forza e lavorare sulle difficoltà.
La diagnosi come punto di partenza e non come punto di arrivo
La conoscenza della diagnosi deve rappresentare un punto di partenza, per la famiglia, il soggetto e soprattutto per chi si occupa di loro. L’accoglienza e l’impostazione del nostro lavoro devono partire da lì, perché ogni disabilità ha le sue peculiarità e già intrinsecamente può indirizzarci. Esistono diverse modalità e strumenti per approcciarsi a queste famiglie spesso sfuggevoli e restie ad affacciarsi alla società. Ad esempio, la socializzazione attraverso lo sport può essere un ottimo tramite per agganciarle. Lo sport dà l’opportunità di vivere momenti di aggregazione, sia al ragazzo che alla famiglia, parallelamente allo svolgimento di attività fisica personalizzata e specifica.
Andare a valorizzare i punti di forza e poter pianificare il lavoro per rafforzare i punti deboli, all’interno di un gruppo squadra, è efficace su diversi piani del benessere: fisico, psicologico, emotivo, sociale, individuale (Montesano, Russo, 2017). Il senso di appartenenza ad un gruppo, sentirsi socialmente accettati, permette addirittura di raggiungere obbiettivi che il singolo vedeva preclusi. I livelli di autostima ed autoefficacia si rafforzano l’uno con l’altro ed il gruppo diventa uno spazio di condivisione ed un luogo sicuro in cui gli ostacoli risultano più sostenibili insieme (Di maglie, 2019).
“Prigionieri di una diagnosi”
Nella nostra realtà di Insuperabili, la conoscenza del singolo parte anche dalla lettura della diagnosi; ciò permette al team di capire quale gruppo squadra può essere più adatto e quale tipo di lavoro impostare, sia fisico che psico-educativo. I nostri team, infatti, sono multidisciplinari perché ogni atleta ha specifiche esigenze e richieste. Possiamo trovarci di fronte a situazioni in cui non c’è piena consapevolezza ed accettazione o addirittura in cui c’è il rifiuto, per cui la famiglia non prende neanche in considerazione l’idea di affrontare un percorso di valutazione, nonostante le evidente difficoltà. Diventa quindi fondamentale l’approccio da utilizzare.
Osservando i singoli casi, si può decidere di agganciare comunque la famiglia ed il ragazzo accogliendoli all’interno di Insuperabili anche senza una diagnosi. In questo caso l’obbiettivo sarà costruire un rapporto di alleanza e fiducia tale per cui si potrà poi indirizzarli verso un percorso diagnostico.
Un punto di forza che caratterizza Insuperabili è la sua alta professionalità nel settore calcistico. Le cinque squadre ufficiali rappresentano un importante palco nazionale, e non solo, per i nostri atleti. Ecco un motivo per cui non bisogna sentirsi prigionieri di una diagnosi: precludersi un tale ventaglio di opportunità sarebbe uno spreco per l’individuo e anche per la società stessa, che è in costante ricerca di talenti da valorizzare.
A proposito del tema trattato, rimando a questa interessante prefazione del libro di Albertina Pretto “Prigionieri di una diagnosi. Punti di vista sulla disabilità” (libreriauniversitaria.it edizioni, 2016). L’autrice è ricercatrice in sociologia presso l’università di Trento dove insegna “Metodi qualitativi” e ha recentemente pubblicato diverse ricerche.
Chiara Melotti
Foto Freepick